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I limiti del governo Renzi e il futuro del Pd. Intervento di Giuseppe Bizzi.

21 febbraio 2014

Pubblicato in: Articoli PD Parma

Il passaggio tra Letta e Renzi ha aspetti di modo e sostanza che devono aprire nel Partito Democratico una riflessione e un confronto ben più profondi di quelli svolti sino ad ora.

  Dal punto di vista dei modi non mi voglio soffermare sulla velocità e l’insensatezza logica del passaggio: nel momento in cui Letta ha presentato il programma per il rilancio del governo, con “temi di centrosinistra” (centralità dell’Europa, riforma del lavoro, lotta all’evasione, ius soli, unioni civili) e tempi stabiliti, è stato sfiduciato dallo stesso partito che gli aveva chiesto quel documento.
Né voglio insistere sul tema della lealtà in politica, anche se è lo stesso Renzi a parlarne nel suo ultimo libro “Oltre la rottamazione”, in cui a pagina 28 scrive: “Nella politique politicienne il mors tua vita mea è un valore indiscutibile. Per cui se vogliamo farci spazio dobbiamo fregare quello che sta davanti a noi. No, grazie. E’ uno stile che non mi appartiene. Non è cosa per noi. Io mi ostino a credere che i tempi siano cambiati. Sarà una mia beata ingenuità, ma credo che essere leali non soltanto sia eticamente giusto. Ma sia anche conveniente. Non è solo per amicizia personale verso Enrico Letta che mai accetterei di fare il segretario del Pd per avere in mano la vita e la morte del suo governo. Ma è anche una questione di dignità (…). Fare il tifo per l’Italia impone oggi di fare il tifo per Letta”.

  Si dice, questa è la politica. Non sono d’accordo, ma posso capire. Faccio però notare che le modalità spesso diventano sostanza politica: basti pensare alle ripercussioni che hanno avuto sul centrosinistra e sui fatti politici seguenti (e quindi sull’Italia) il modo in cui Prodi è stato sfiduciato per due volte da presidente del Consiglio o è stato silurato dai 101 parlamentari Pd nell’elezione al Quirinale.

  Le ripercussioni sono tanto più forti quanto meno vengono spiegati i passaggi. E questo passaggio non è stato spiegato. Né dallo scarno documento approvato a larghissima maggioranza dalla direzione del Pd né dagli interventi che lo hanno sostenuto durante il dibattito. Di fatto si sfiduciava Letta, pur definendone “notevole” e “positivo” il lavoro e assumendone il programma, e si proponeva Renzi per un governo di legislatura con il centrodestra.
 
  Ma perché con la stessa maggioranza e programma simile Renzi dovrebbe riuscire là dove Letta ha fallito? A questa domanda non ho sentito nessuna risposta di merito, se non la fiducia nel segretario. Di fatto, una delega in bianco al leader. Ma il Pd non si è sempre vantato di essere l’unico soggetto politico che si definisce ancora partito e che non ha il nome del leader nel simbolo? Ma questo significa dare prevalenza ai processi e ai contenuti, con la consapevolezza - controcorrente di questi tempi - che questo sia non solo più giusto, ma anche più efficace rispetto a scorciatoie leaderistiche.
  Eppure la scorciatoia l’abbiamo presa, con un’impressione generale nel partito di conformismo (prima verso il governo Letta poi improvvisamente verso il governo Renzi) e poca voglia di disturbare il manovratore. Fatta eccezione per il gruppo di Civati, critico verso il governo Letta e coerentemente critico verso un governo che ne vuole replicare le logiche fino al 2018.
Le primarie del dicembre scorso, oltre ad eleggere il segretario, avevano il compito di definire più chiaramente l’identità del nostro partito. Un tema poco presente nel dibattito congressuale, ma praticato ora nei fatti. Si sta andando verso un partito che è soprattutto strumento di sostegno al leader. “Diventa un mezzo. E’ il post-Pd, senza bandiere”, ha scritto qualche tempo fa Ilvo Diamanti su “Repubblica”. Per cui al Pd non servirà più un segretario effettivo (Renzi manterrà la carica ma non riuscirà ad esercitarla), ma basterà un coordinatore ( probabilmente l’attuale portavoce della segreteria Guerini). E non a caso Nardella, deputato vicinissimo a Renzi e da lui designato come candidato sindaco di Firenze, ha già proposto di togliere la parola “Partito” dal nome del Pd.
 
  Ma oltre al nome c’è la sostanza della collocazione politica. Il governo Letta era per il Pd una soluzione emergenziale, un esecutivo a termine, esito di risultati elettorali senza vincitori, del rifiuto di partecipare al governo da parte del Movimento 5 stelle e della rielezione di Napolitano. Ora, con un governo a guida del segretario stesso del Pd, che conferma la stessa maggioranza e si pone un programma di legislatura, l’alleanza con il centrodestra diventa una scelta politica. Si dice che il rischio sarebbe stato di andare a votare e avere come esito le larghe intese. Ma è esattamente quello che stiamo facendo con il governo Renzi, per di più non per scelta degli elettori che in una campagna elettorale avrebbe potuto votare anche in base a questo rischio.
Un esito anticipato fin dal documento approvato in direzione, che confermava la stessa maggioranza e di fatto escludeva ogni avvicinamento di Sel o dei parlamentari 5 stelle fuoriusciti o delusi (dopo la performance di Grillo in streaming spero saranno sempre di più). Una scelta di collocazione di fatto già cominciata con l’assenza di Renzi al congresso di Sel (e i fischi a Bonaccini) e con l’asse privilegiato sulle riforme con Berlusconi, tornato al centro della scena politica, che ha già anticipato la volontà di una opposizione morbida al governo Renzi. Si spera che il Pd rifiuti con decisione ogni offerta di Gal, il partito di Cosentino  e Lombardo, che ha annunciato il sostegno all’esecutivo.

  E’ chiaro che centrosinistra e centrodestra sono oggi alternativi. Ma è altrettanto chiaro che con questo percorso è agli elettori a destra del Pd, piuttosto che a quelli alla sua sinistra, che si sta guardando per allargare i futuri consensi. Se il governo durerà fino al 2018, non sarà facile archiviare l’asse con il Nuovo centro destra, perché è con questo partito che i contenuti dell’azione di governo dovranno essere concordati ogni giorno, come abbiamo già visto nella fase iniziale di trattativa sul programma.
 
  E quanto la mediazione possa influire sulla qualità del risultato Renzi lo ha già sperimentato in occasione della nuova legge elettorale, quando per raggiungere l’accordo con Berlusconi ha dovuto accettare due elementi di per sé inaccettabili come le liste bloccate e la norma salva Lega. Speriamo per l’Italia e per il Pd che il nuovo governo a guida Renzi goda di maggiori margini di azione. 
 

Giuseppe Bizzi
  Consigliere comunale Pd
 






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