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26 marzo 2012: Riflessioni di Giorgio Pagliari sull'ipotesi di modifica dell'art. 18



  Di fronte alla ventilata modifica dell'art. 18 la questione principale non è la guerra tra guelfi e ghibellini o tra chi è più realista del re e chi vuole tenere i piedi per terra, ma è quella della direzione di marcia: dove stiamo andando? L'art. 18 ha costituito, 42 anni fa, un importante salto di qualità della civiltà giuridica di questo paese, peraltro in coerenza con i valori costituzionali dell'uguaglianza sostanziale (art. 3) e del diritto al lavoro (art. 35 e 36). L'obbligo di reintegro nel posto di lavoro, infatti, pur se limitato alle imprese con più di 15 dipendenti, riequilibrava il rapporto tra le parti contraenti in nome del principio generale della tutela del contraente debole (il c.d. favor), impedendo al datore di lavoro la libertà di licenziamento sulla base - tra l'altro - della considerazione che il licenziamento, quand'anche indennizzato, lasciava il solo lavoratore nella difficoltà, dovendo questi trovare un nuovo posto, mentre per il datore di lavoro la corresponsione del risarcimento del danno da licenziamento poteva essere conveniente nella prospettiva costi/benefici.  La c.d. tutela reale, cioè il reintegro obbligatorio nel posto di lavoro, peraltro, costituiva un oggettivo disincentivo ai licenziamenti facili. Si trattava di una disciplina non perfetta, ma comunque fondata su un apprezzabile equilibrio tra le diverse esigenze. La prospettata riforma scardina questo assetto e lo scardina con una regressione netta sul piano della civiltà giuridica. Basti, al riguardo, considerare che, se sono vere le notizie giornalistiche, sarebbe nella potestà insindacabile (anche dal Giudice) del datore di lavoro la qualificazione del licenziamento, con la conseguenza che a quest'ultimo basterebbe etichettare come economico un licenziamento per essere sicuro di liberarsi del lavoratore indesiderato: altro che la parità di fronte alla legge senza distinzione di lingua, di sesso, di razza, di opinioni politiche, di fede religiosa e di condizioni personali e sociali (art. 3 Cost.)! Si può accettare in nome dell'emergenza economica, della competitività e delle ragioni della finanza europea e mondiale una simile scelta? Credo proprio di no. E il primo a dirlo è, in buona sostanza, l'attuale Ministro alla Coesione Territoriale. Lo sviluppo di un sistema socio-economico richiede il giusto contemperamento tra le diverse e contrapposte esigenze. E questo va perseguito più che mai in Italia, Repubblica fondata sul lavoro (art. 1 Cost.) non in termini ideologici, ma nella visione della via lavorativa come strumento di crescita e realizzazione personale, come diritto, ma anche come dovere: fortissimo è, in questo senso, il portato dell'art. 4 Cost.. E, per di più, di un diritto al lavoro reso sinergico con il diritto all'impresa come postula l'art. 42, II comma, Cost.. La filosofia di questa ipotizzata riforma travolge questa impostazione: un padre costituente, come Costantino Mortati, direbbe che si crea una cesura forte tra la Costituzione formale (quella del 1948) e quella materiale, riducendo il riconoscimento costituzionale del diritto al lavoro ad una mera petizione di principio.         Su questa premessa, mi auguro che il Governo dimostri l'imparzialità (art. 97 Cost.) e la capacità politica, oltreché tecnica, per giungere ad un assetto della disciplina del licenziamento, che, pur innovata, non cancelli quarant'anni di statuto dei lavoratori. E questo non per nostalgia e per conservatorismo, ma per la convinzione che il progresso richiede innovazione e non regressione e che non c'è progresso se non c'è equilibrio nelle scelte.

Parma, 22.03.2012 
                                                                   Giorgio Pagliari




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